mercoledì 27 agosto 2008

La scuola del Sud non è di serie B


I giornali hanno riportato le dichiarazioni del ministro Gelmini sull'abbassamento della qualità dell'istruzione in Italia, imputabile alle scuole del sud e ai suoi insegnanti per i quali la titolare del ministero dell'Istruzione ha parlato di corsi ad hoc. Oggi la rettifica. Resta però l'amarezza, tanta. Ho 28 anni e ho fatto le scuole dell'obbligo e il liceo in provincia di Catanzaro. Poi l'università a Roma. Massimo dei voti in un semestre in meno rispetto alla durata del mio corso. Idem mio fratello, laureatosi poche settimane fa. Come sempre oggi ho parlato al telefono con mia madre che in un liceo del sud lavora come assistente amministrativa. A stento tratteneva le lacrime commentando le parole della ministra. Uno schiaffo a intere generazioni di meridionali che hanno fatto e fanno sacrifici per emanciparsi dall'ignoranza e dalla mediocrità. Uno schiaffo ai tanti ragazzi che hanno lasciato le famiglie per andare a insegnare al nord, a riempire i vuoti lasciati da un sistema improntato al produttivismo. Uno schiaffo ai tanti meridionali che riempiono le università del centro e del nord. Provo un'amarezza infinita. E non bastano le smentite. Non bastano più. Negli ultimi mesi ho visto sgretolare a poco a poco tutte le cose che proprio in quelle scuole tanto criticate mi sono state insegnate: il rispetto della diversità, il dialogo tra le culture, il coraggio di seguire una vocazione. Per anni anche all'università ho ringraziato mille volte gli insegnanti incontrati in quelle scuole dove, mancava la palestra, mancavano strumentazioni nuove nei laboratori, ma non mancava l'amore per la cultura né la preparazione e la voglia di trasmetterlo a chi aveva voglia di appropriarsene. Mi fa paura quello che vedo e sento. Credevo di essere italiana. Oggi ho riscoperto di essere meridionale. Italiani sì, ma di serie B.
dA: laRepubblica, (Lettera firmata)

sabato 23 agosto 2008

I SICILIANI E I POLITICI CON LE MANI LEGATE

Chi lega le mani e i piedi ai politici

I siciliani vogliono che quelle mani e quei piedi rimangano legati.

Francesco Palazzo

Una delle frasi di commiato del questore Giuseppe Caruso, che lascia Palermo per Roma, sarebbe da incorniciare per come, in maniera sintetica, descrive la situazione politica siciliana. Commentando gli indubbi successi repressivi contro Cosa nostra degli ultimi tempi, nel riferirsi all´azione politico-amministrativa della maggior parte delle istituzioni rappresentative siciliane, afferma che «ci sono politici che hanno mani e piedi legati: devono avere più coraggio e agire in assoluta libertà».Chi lega la politica siciliana e le impedisce di fare per intero il proprio dovere? Si potrebbe facilmente rispondere che sono i legami con la mafia, visibili e meno palpabili, quelli che frenano, imbrigliano, ritardano, paralizzano molti uomini e donne, certi partiti o frange consistenti di determinate formazioni politiche, un buon numero di istituzioni e governi locali. E, in piccola parte, ciò corrisponde al vero. Ma c´è, e secondo noi è la porzione più consistente, una politica siciliana che ha le mani e i piedi legati, o vuole mostrare di averli, per trovare alibi all´inconsistenza amministrativa che la caratterizza, all´incapacità di governo che manifesta, alla scarsa progettualità politica che riesce a mettere in campo, in quest´ultimo caso, sia che governi sia che si trovi all´opposizione, per motivi più interni alla stessa azione politica e amministrativa.Abbiamo, in sostanza, sempre più l´impressione che l´azione politica, certo non di tutti ma della maggior parte degli eletti ai diversi livelli di governo nell´Isola, sia caratterizzata dall´incanalamento, a volte legittimo, spesso abbastanza ambiguo se non illegittimo, delle risorse pubbliche a vantaggio dei pochi che riescono ad afferrare il mantello di questo o quel potente.
Che ha il potere di aprire e chiudere i cordoni della spesa, di conoscere la via per arrivare a un posto di lavoro foraggiato dal pubblico e non sempre essenziale alla collettività.Se questi sono i principali obiettivi della politica in Sicilia, vuol dire che il tempo per amministrare la cosa pubblica in maniera virtuosa e trasparente sarà sempre meno, il coraggio e la libertà auspicati dal questore latiteranno sempre più. Tutte le migliori energie mentali e fisiche verranno indirizzate a privilegiare, in termini di accesso ai santuari della spesa pubblica, la vera cosa che conta a certi livelli, il proprio pezzo di tribù politica, la propria corrente, la corte più o meno nutrita che gira intorno a questo o a quel deputato, consigliere provinciale, comunale o semplicemente circoscrizionale.Allora è normale apprendere, e dovrebbe invece creare scandalo, che questo o quel vertice della burocrazia regionale, sanitaria, comunale, provinciale è legato a questo o a quel potente. Ci chiediamo: se un alto dirigente dovrà rispondere del proprio operato a chi è in grado di salvaguardarne la carriera, avrà o no le mani e i piedi legati nell´attività amministrativa che dovrebbe svolgere a solo esclusivo vantaggio della collettività? E se il politico che lo garantisce, e può o meno rimuoverlo, non dovrà guardare all´efficacia e all´efficienza del suo operato, ma soltanto alla sua fedeltà alla casacca politica che indossa, avrà o no anch´egli mani e piedi legati?La risposta alle due domande è scontata. Il questore uscente ha individuato il nodo cruciale della vita pubblica siciliana: una politica e un´amministrazione dalle mani legate, non solo per il rapporto con la mafia, è la vera palla al piede della Sicilia. Come fare a sciogliere questi nodi tragici che legano tante mani e tanti piedi non è purtroppo all´ordine del giorno della stragrande maggioranza dei siciliani. I quali vogliono, è bene dirselo senza ipocrisie, che quelle mani e quei piedi rimangano legati. Ciò serve a rispondere meglio ai bisogni clientelari di un popolo che continua a non chiedere altro alla politica.

In: laRepubblica 23.8.2208

mercoledì 6 agosto 2008

FARSE POLITICHE E DIRITTI CIVILI

Noi italiani abbiamo una vocazione per la farsa. Finché si applica l´arte, tutto bene. Quando traligna e si pretende politica, l´effetto è meno lusinghiero. E conferma il resto del mondo nel giudizio sul carattere sovente umoristico delle nostre apparizioni sul palcoscenico internazionale.
Alla farsa politica appartiene senz´altro l´invito rivolto in extremis da autorevoli esponenti del governo (Giorgia Meloni) e della maggioranza (Maurizio Gasparri) ai nostri atleti perché boicottino la cerimonia inaugurale dei Giochi Olimpici. Motivo: il regime di Pechino non rispetta i diritti umani.
Ora, i casi sono tre.
1: Gli standard cinesi in materia di libertà civili, sovranità del diritto e democrazia sono del tutto intollerabili per i principi e la prassi del nostro paese, al punto di impedirci di partecipare alle Olimpiadi. Ipotesi ad oggi scartata dal governo e dalla maggioranza di cui le Meloni e i Gasparri sono parte.
2: L´autocrazia cinese non ci piace punto, ma siccome rappresenta una superpotenza in gestazione, con cui dovremo fare i conti per questo secolo e oltre, non consideriamo utile ferirla nel momento in cui, ospitando il più grande evento mediatico di ogni tempo, si espone al giudizio del mondo. Anzi, le Olimpiadi sono l´occasione per spingere la Cina ad avvicinarsi per quanto possibile ai valori e alle regole occidentali. Opzione prevalente a Palazzo Chigi, come confermato in serata dallo stesso Berlusconi con una telefonata al ministro degli Esteri Frattini, nel tentativo di mettere la sordina alla diatriba innescata da Meloni e Gasparri. Scelta fra l´altro già solennemente sigillata da Napolitano con la consegna del tricolore ai nostri atleti in partenza per Pechino.
3: Insensibili al principio di non contraddizione e al comune senso del pudore, proviamo a conciliare le due scelte precedenti. Dunque spediamo gli azzurri in Cina con il dovuto accompagnamento di stendardi, inni e fanfare, salvo poi virilmente invitarli al «gesto forte»: boicottate la cerimonia di apertura! Ecco l´astuto "lodo Meloni- Gasparri": gli atleti facciano i politici, visto che i politici non sanno che fare. Nella migliore tradizione della farsa all´italiana.
E visto che ormai le parti in commedia sono rovesciate, non stupisce che il commento più pertinente e più politico al "lodo Meloni-Gasparri" sia scaturito dalla bocca di un pugilatore, il campione del mondo Clemente Russo, elettore di Alleanza nazionale: «Certi politici, anche se vicini alle mie idee, sono incompetenti. Non capiscono certe cose al di fuori del loro mondo. Non vedo perché disertare la cerimonia d´apertura. Tanto valeva boicottare i Giochi. Alla ministra Meloni chiedo: ma lei diserterebbe l´occasione della sua vita?».
Il loico russo ha un solo torto. Considera che a reggere lo Stato siano statisti mossi dalla cura del bene comune. O dal puro buon senso. La farsa preolimpica - speriamo si chiuda qui, ma non ci giureremmo - conferma che non sempre è così. La pioggia estiva di battute e controbattute sull´esserci o non esserci all´inaugurazione delle Olimpiadi - in attesa che qualcuno proponga per equanimità di astenerci dalla cerimonia di chiusura - è solo ginnastica di aggiustamento attorno a quella che ciascuno dei dibattenti presume sia la prevalente opinione pubblica in materia. Ammesso e non concesso che gli italiani, in vacanza e non, si dilanino circa l´opportunità che gli azzurri sfilino o meno sulla pista dello stadio olimpico di Pechino.
Se il governo fosse riuscito a convincere gli atleti azzurri a disertare l´inaugurazione dei Giochi, dopo averceli mandati, avrebbe realizzato un autogol di rara fattura. Invece di isolare la Cina avremmo isolato noi stessi. Anziché contribuire alla causa della libertà nell´Impero di Mezzo, avremmo convinto definitivamente i cinesi, e con loro il mondo, che siamo un paese di inaffidabili dilettanti.
Per carità, la gestione politica delle Olimpiadi cinesi è questione più che seria. Ma i responsabili dei diversi paesi hanno sciolto il nodo da tempo. E comunque non delegano agli atleti le proprie responsabilità. Il che non impedirà a singoli olimpionici di compiere gesti simbolici, per ragioni di coscienza e impegnando solo se stessi.
Fra i leader mondiali la scelta più significativa l´ha compiuta George W. Bush, che in Cina si fermerà quattro giorni. In coerenza con la linea di "ingaggio" della Cina prevalente a Washington. Certo, l´osmosi economica cino-americana spiega la presenza di Bush alle Olimpiadi - non solo all´apertura - più e meglio di ogni altra considerazione. L´ultima cosa che può venire in mente a un responsabile politico americano è quella di colpire la Cina, pur solo simbolicamente, perché oggi equivale a colpire l´America.
Ma Bush, e con lui molti americani (elettori di Obama compresi), è anche un sincero credente nell´espansione della democrazia in quanto valore universale, destino di ciascuno e di tutti. E con lui diversi leader e analisti, non solo americani, pensano che dopo l´intensa e prolungata esposizione alle luci del mondo dovuta alle Olimpiadi - terrorismo e altre catastrofi permettendo - la Cina non sarà più la stessa. Avrà compiuto sensibili passi avanti sulla via della libertà. Con o senza l´avallo dei gerarchi, il popolo cinese non vorrà più tornare indietro.
Come osserva sull´Herald Tribune Victor D. Cha, direttore degli Studi asiatici alla George Town University, «le Olimpiadi stanno costringendo uno dei più rigidi sistemi al mondo al cambiamento». E come conferma Zhang Yi, autorevole analista cinese, nell´ultimo volume di Limes, la via delle riforme è irreversibile, anche se nessuno può scommettere sul risultato. Perché, a differenza del Celeste Impero, che subordinava la crescita economica alla stabilità, «nella Cina moderna è lo sviluppo economico a essere prioritario e la politica deve adattarsi alle trasformazioni economiche».
Vorremmo sbagliarci, ma temiamo che nell´appassionato dibattito nostrano intorno al "lodo Meloni-Gasparri" di simili considerazioni vi sia scarsa eco.

Lucio Caracciolo su laRepubblica 6 Agosto 2008.